Luca Mazzinghi
Pontificia Università Gregoriana (Roma)
Riassunto: Qo 4,17 menziona il “sacrificio degli stupidi”, all’interno di un passo polemico nei confronti del culto (Qo 4,17–5,6). Il Qohelet, in un versetto non privo di difficoltà testuali, non critica il culto sacrificale in quanto tale, ma lo relativizza; allo stesso tempo, attacca la pretesa umana di manipolare Dio: in questo consiste il comportamento degli “stupidi” che, nota ironicamente il Qohelet, “non sanno neppure di agire male”. Al “sacrificio degli stupidi” il Qohelet contrappone l’atteggiamento dell’ascolto e, in 5,6, quello del “temere Dio”, ovvero del riconoscimento della propria dipendenza da Lui.
Parole chiave: Qohelet. Stupido/i. Sacrificio. Culto.
Abstract: Qo 4,17 mentions the “sacrifice of fools”, within a controversial passage against worship (Qo 4,17-5,6). Qohelet, in a verse not devoid of textual difficulties, does not criticize the sacrificial cult as such, but relativizes it; at the same time he attacks the human pretension to manipulate God: this is the behavior of the ‘fools’ who, the Qohelet ironically notes, “do not even know they are acting badly”. To the “sacrifice of fools” the Qohelet contrasts the attitude of listening and, in 5.6, that of “fearing God”, that is, the recognition of one’s dependence on Him.
Keywords: Qohelet. Fool. Sacrifice. Cult.
I libri sapienziali, com’è noto, si occupano nel loro complesso relativamente poco del culto1; quanto al Qohelet, due sole volte egli ricorda il culto sacrificale, ovvero in 4,17 e in 9,2. Ci occupiamo in modo particolare del primo passo, nel quale appare una connessione molto interessante e davvero unica nella Bibbia ebraica, quella cioè tra ‘sacrificio’ (zbḥ) e ‘stupidi’ (kslym).
Notiamo prima di tutto come il testo di Qo 4,17 si trovi in apertura di una chiara unità letteraria costituita da 4,17–5,6; si tratta di una sezione dedicata a una valutazione critica del culto e della preghiera2. Si osservi come questo è il primo poema di ammonimento di tutto il libro, dopo ben quattro capitoli all’indicativo, offerti in forma di sentenze o di constatazione. Il libro del Qohelet si apre in particolare, dopo il poema iniziale (1,4-11), con la ben nota sezione in cui l’autore si serve, ironicamente, della maschera regale salomonica (1,12–2,26), una sezione al termine della quale egli propone la sua riflessione sui tempi, sulla ricerca umana, sulla gioia (cf. Qo 3,1-15), con la figura di Dio al cuore dei vv. 11-15. Subito dopo, troviamo due considerazioni sulla morte come destino ultimo dell’essere umano (3,16-22) e sulla stoltezza dell’agire umano (4,1-16); all’umanità immersa nella violenza manca anche il conforto di un Dio consolatore (cf. 4,1-2). Solo a questo punto, e per la prima volta nel suo libro, il Qohelet introduce una nuova pericope con un’ammonizione formulata in seconda persona, tipica della letteratura sapienziale (“bada ai tuoi passi”); una nuova ammonizione chiude invece in inclusione la sezione (“ma tu, temi Dio”; 5,6); altre ammonizioni si trovano al centro della pericope (cf. 5,1a.3a.5a). In tutto ciò il Qohelet differisce notevolmente dal libro dei Proverbi, che in Pr 1–9 si apre subito in chiave di ammonimento (cf. Pr 1,8-19) e prosegue con altre sei istruzioni sapienziali; ma già il primo discorso della sapienza personificata in Pr 1,20-33 è costruito in un chiaro tono di ammonizione.
Si è talora pensato che la pericope di Qo 4,17–5,6 costituisse un corpo estraneo nel libro; coloro che ipotizzavano nel Qohelet la presenza di più redattori non esitavano infatti a espungerla3. In realtà, occorre ormai riconoscere come Qo 4,17–5,6 è una sezione che si ricollega perfettamente con il resto del libro4: una semplice analisi del vocabolario può dimostrarlo. Ritornano radici ben presenti nel libro, come yd‘, ‘śh, ṭwb; per sei volte appare ’ĕlōhîm. Concetti e immagini come lo ‘stupido’, la bocca e il parlare (5,1-2.5) riappaiono di nuovo insieme in Qo 10,12-15; cf. anche Qo 6,11, sul molto parlare. Il termine šegāgāh ritorna anch’esso in 10,5.
La pericope può essere facilmente suddivisa in due parti ben distinte:
4,17–5,2: sacrifici (4,17) – preghiera (5,1) – sogni e parole (5,2)
5,3-6 voti (5,3-4) – parole (preghiera) (5,5) – sogni e parole (5,6a) – tu temi Dio (56b)5.
La prima osservazione critica del Qohelet all’interno di questa pericope è rivolta al fatto stesso di recarsi al Tempio: “bada ai tuoi passi quando entri nella casa di Dio”; ma subito dopo l’attenzione si rivolge ai sacrifici, che del culto templare, a Gerusalemme, costituivano senza dubbio l’elemento centrale. Già sulla prima frase del v. 13, tuttavia, i pareri si dividono: alcuni pensano che il Qohelet inviti a una generica cautela nel recarsi al Tempio, senza farne il centro della propria vita religiosa; altri ritengono che inviti piuttosto i suoi lettori/ascoltatori a un comportamento corretto in relazione al Tempio, ovvero a non comportarsi da stupidi6. Quest’ultima è una interpretazione plausibile, pur non potendo scartare, come spesso avviene nel Qohelet, una punta ironica: se proprio vuoi recarti al Tempio, fa’ attenzione a come ci vai.
La seconda parte del v. 17 richiede tuttavia una maggior attenzione a livello di analisi testuale (v. sotto).
Bada ai tuoi passi quando entri nella casa di Dio:
avvicínati per ascoltare, piuttosto che per offrire un sacrificio di stupidi,
[oppure: avvicínati per ascoltare. Il sacrificio è un’offerta di stupidi,]
i quali non sanno neppure di commettere il male.
L’alternanza in 17a tra il Ketiv (rglyk, duale) e il Qere (rglk, singolare), non ha un impatto significativo sull’interpretazione del testo. Più difficile è invece la clausola che segue in 17b: wqrwb lšm‘; la forma qrwb può essere intesa come un infinito dal verbo qrb con funzione di soggetto: “avvicinarsi per ascoltare”7; in parallelo con la forma imperativa iniziale (šmr) è tuttavia più opportuno dare appunto all’infinito il valore di un imperativo: “avvicínati per ascoltare!”8.
Il verbo šm‘ compare in Qo 1,8; 7,5 (2x).21; 9,16.17; 12,13, sempre con il senso di ‘ascoltare’, “fare attenzione”, e non con quello di ‘ubbidire’, come avviene spesso altrove nella Bibbia ebraica, e probabilmente anche in 1 Sam 15,22, testo a cui il nostro saggio sembra alludere (ma cf. più sotto); si veda anche la traduzione della Vg: multo enim est oboedientia quam stultorum victimae, che si colloca su questa linea interpretativa. Il versetto successivo (Qo 5,1) insiste esplicitamente sul tacere davanti a Dio; ora, l’alternativa al tacere è l’ascoltare, piuttosto che l’ubbidire; nel libro del Qohelet, inoltre, l’ubbidienza alla Legge divina non è un tema che appare, al di là dell’epilogo (Qo 12,13). Dunque, una traduzione di šm‘ con ‘ascoltare’ è senz’altro preferibile.
Nell’espressione che segue, mtt hkslym zbḥ, la sintassi è certamente tormentata e la traduzione non si presenta agevole. Il verbo ntn è preceduto nella lettura del TM dalla particella min con valore comparativo; non è necessario presupporre l’ellissi di tôb come fanno diversi commentatori (cf. anche la proposta della BHS) che intendono così questo testo come uno dei molti “Proverbi-Tôb” presenti nel libro del Qohelet, ovvero: “avvicinarsi per ascoltare è meglio che offrire un sacrificio di stupidi”. L’intera espressione può essere tradotta in questo senso con: “avvicìnati per ascoltare, piuttosto che offrire un sacrificio di stupidi”9.
Diversa e senz’altro interessante è tuttavia la lettura offerta dai LXX: hypèr dóma tôn afrónōn thysía sou: “il tuo sacrificio sia più che il dono degli stolti”. I LXX presuppongono di leggere mmtt invece di mtt (cf. la traduzione della Vg, sopra riportata). Se non si tratta di una lettura conflata del TM, si può ipotizzare una dittografia della lettera mem da parte del traduttore greco, oppure una aplografia del TM10; si può tuttavia pensare anche a un’interpretazione intenzionale del testo ebraico da parte del traduttore.
Th. Krüger avanza a questo riguardo un’ipotesi interessante che poi tuttavia non sviluppa nel suo commentario, che cioè la lettura originale del TM fosse appunto quella attestata almeno in parte dai LXX, ovvero: mattat hksylym zbḥ: “dono di stupidi è il sacrificio”; la sintassi del versetto sarebbe anche più facilitata11. Si tratterebbe in questo caso, se questo fosse il testo originale del Qohelet, di una critica molto radicale mossa dal Qohelet stesso al culto sacrificale in quanto tale. Il testo ebraico sarebbe stato poi modificato per evidenti ragioni teologiche dai Masoreti, cambiando la vocalizzazione di mattat in mittēt; i LXX attesterebbero dunque in qualche modo la lezione originale. La lettura proposta da Krüger si può in realtà interpretare anche nel senso che gli stupidi sono tali perché pensano di poter essere graditi a Dio per il fatto di offrirgli un sacrificio (appunto: “un dono di stupidi”), senza però rendersi conto di ciò che fanno (v. sotto).12 Si tratta di una lettura senza dubbio suggestiva, che tuttavia i LXX confermano solo in parte ed è quindi difficile decidere in merito. Come vedremo anche alla luce di 9,2, il Qohelet non sembra in ogni caso voler attaccare il culto in quanto tale in un modo diretto, ma piuttosto intende criticare la falsa sicurezza di coloro che vedevano nel culto (come in tutto l’apparato religioso legato al Tempio) il fondamento dell’essere graditi a Dio. L’ordine senz’altro inusuale dei termini ebraici – mtt hksylym zbḥ – sembra appunto suggerire che la critica non è diretta contro il sacrificio in quanto tale, ma contro il fatto che esso viene offerto dagli stupidi13; se prendiamo mtt come sostantivo sulla base del greco, la sequenza dei termini risulta senz’altro più chiara.
Anche il terzo stico presenta notevoli difficoltà, più interpretative che testuali: come intendere infatti, l’espressione riferita agli stupidi: ki-’ynm ywd‘ym l‘śwt r‘? Una tale espressione può di per sé soltanto significare “poiché essi non sanno (come/di) fare il male” (cf. Qo 9,5: i morti “non sanno niente”)14; secondo M. V. Fox ogni proposta di spiegazione di un testo siffatto non è persuasiva; egli rinuncia così a comprendere il testo15. Il TM sembra in realtà più chiaro di quanto a prima vista non appaia e non richiede ulteriori emendazioni16: gli stolti non sanno di compiere il male, nel momento in cui essi offrono sacrifici. Rimando al successivo commento un tentativo di soluzione dei problemi che in ogni caso questa espressione continua a sollevare. Già nel Talmud (cf. bBer 23a), del resto, si discute brevemente il fatto che gli stolti, se non sanno fare il male, sarebbero allora dei giusti; in realtà essi non lo sono, ma essi, in quanto stolti, non sanno se stanno offrendo un sacrificio relativo al bene oppure al male.
Per comprendere che cosa intenda il Qohelet quando menziona un sacrificio fatto da stupidi, è utile chiarire prima di tutto qual è la portata del termine ksyl nel libro, considerato anche il fatto che la figura degli ‘stupidi’ / ‘stolti’ vi appare con una certa frequenza. Il termine ksyl ritorna infatti ben 18 volte nel Qohelet, 9 delle quali in opposizione al ‘saggio’, ḥkm17. Occorre aggiungere poi la presenza di ksl in 7,25, oltre ai termini skl e sklwt appartenenenti allo stesso campo semantico18. Quella dello stupido, nel libro del Qohelet, è una figura evidentemente negativa, come già del resto nel libro dei Proverbi19; pur se il Qohelet non identifica del tutto stupidità e malvagità, lo stupido non è per lui un personaggio innocuo, da un punto di vista etico; la stupidità non è un problema di debolezza mentale, ma di carenza di discernimento. Nella stessa pericope che stiamo esaminando (4,17–5,6) il termine ksyl ritorna altre due volte in 5,2.3, all’interno della riflessione sul tema della preghiera (cf. in particolare 5,1b) e poi del ‘voto’; leggiamo in 5,2a che “la voce dello stolto (viene) con molte parole”; ovvero davanti a Dio lo stolto è colui che pensa di pregare moltiplicando le parole. In 5,3 l’espressione ky ’yn ḥpṣ bkslym va intesa in questo contesto cultuale (in 3a si fa riferimento al voto) come: “non c’è gradimento nei confronti degli stupidi”, ovvero gli stupidi non piacciono né a Dio né agli uomini20. In 7,17, pur utilizzando un termine diverso (ksl), il Qohelet esclude del tutto, con molta chiarezza, la possibilità di essere stupido21.
In 4,17 risalta come si è già detto la novità della connessione tra gli stupidi e il sacrificio. Ma che cosa il Qohelet sta in realtà criticando? Un certo tipo di sacrificio? Il culto sacrificale in generale? Dal momento che per ben nove volte egli contrappone nel suo libro lo stupido al saggio, ha forse qui in mente un qualche tipo di “sacrificio dei saggi” che possa essere migliore o diverso di quello degli stupidi?
Prima di affrontare una tale questione, è necessario soffermarci sull’ultima parte del testo di 4,17 che continua a creare molte difficoltà ai commentatori del Qohelet: “perché essi (i.e. gli stupidi) non sanno come/di agire male”. Credo debba essere escluso il senso che a volte è stato proposto: “perché essi non sanno neppure come fare il male”, a meno che non si voglia intendere una tale affermazione in senso pesantemente ironico o sarcastico22. E’ tuttavia possibile che il Qohelet apra qui uno spiraglio sul problema della volontarietà della colpa: fino a che punto l’essere umano è da considerarsi responsabile delle proprie azioni? Il libro del Qohelet, in ogni caso, non intende mai negare la libertà dell’uomo – affermando appunto che gli stupidi non sanno come commettere il male – né vuole scusare gli stupidi asserendo che, essendo essi radicalmente ignoranti, non potrebbero far altro che commettere il male. Seow cita al riguardo un testo bilingue ugaritico-accadico:
Chi non si riconosce colpevole corre dal suo dio,senza pensarci alza presto le sue mani (in preghiera) verso il dio (…).Un uomo (che è) nell’ignoranza corre verso il suo Dio23.
Secondo questo testo, esistono persone che celebrano il culto e pregano senza rendersi conto che stanno invece agendo male. Su questa linea, in relazione al successivo testo di Qo 5,5, è possibile che il Qohelet avesse anche in mente quegli Israeliti che offrono sacrifici per i loro peccati di ‘inavvertenza’ (se così interpretiamo il termine šggh in Qo 5,5)24 e non si rendono conto dell’inutilità del loro gesto25. Probabilmente, tuttavia, non va perduta la forte portata ironica del testo qoheletico: dopo un invito a prendere sul serio il recarsi al Tempio (cf. 4,17a), il nostro saggio ricorda, in linea con una attestata tradizione biblica, che l’ascolto val più dei sacrifici (v. sotto, a questo riguardo). A questo punto, ecco giungere il suo commento ironico e pungente: certo, l’ascolto è migliore dei sacrifici, ma, aggiunge il Qohelet, specialmente quando si tratta dei sacrifici degli stupidi, che sono tali soprattutto perché neppure si accorgono che stanno agendo in maniera sbagliata: essi infatti “non sanno di agire male”, non si accorgono neppure che stanno agendo male!26 Il sacrificio, infatti, non può in alcun modo sostituire l’atteggiamento interiore dell’ascolto. In ogni caso il Qohelet non sembra pensare affatto a una qualche forma di sacrificio offerto dai saggi che potrebbe contrapporsi, come forma corretta di sacrificio, a quello offerto dagli stupidi. Torneremo tra breve sul tema dell’ascolto, come ciò che realmente il Qohelet contrappone al sacrificio degli stupidi; ci chiediamo adesso contro chi o contro che cosa è diretta la sua critica.
La tradizione ebraica antica, nel Midrash Qohelet Rabbah (sub loco), collega il testo di Qo 4,17 con la recita dello Shema‘, in un detto attribuito a un personaggio peraltro altrimenti sconosciuto, un certo Huna bar Geniba: “è meglio recitare lo Shema‘ al suo momento che i mille sacrifici che lo stupido può offrire. Perché? Perché non si accorgono di fare il male”: (non sanno) neppure distinguere tra un’offerta e un’altra”. Il Midrash cita qui curiosamente il caso di Iefte il Gaaladita (cf. Gdc 11) che offre a Dio sua figlia in sacrificio. Un buon esempio di come la tradizione ebraica tentava di appianare le difficoltà di questo testo ricorrendo alla Bibbia stessa.
Molti autori contemporanei ritengono che il Qohelet alluda qui al testo di 1Sam 15,22, un passo del resto già ricordato a questo riguardo nel commentario di Girolamo27. In un recente studio di carattere intertestuàle C. A. Gutridge ritiene di vedere in Qo 4,17 la presenza di una doppia intertestualità: prima di tutto un forte riferimento al sacrificio offerto da Saul contro la volontà di Dio, prendendo così proprio il testo di 1Sam 15,22 come principale chiave interpretativa del passo del Qohelet; poi un riferimento a Gb 42,8, ovvero al sacrificio fatto per gli amici di Giobbe, i quali sarebbero in qualche modo gli ‘stupidi’ cui alluderebbe Qo 4,1728. L’atteggiamento del “temere Dio” richiamato dal Qohelet in 5,6 richiamerebbe così anche quello di Giobbe posto di fronte al suo Dio (cf. Gb 42,6). R. Gordis sottolinea tuttavia una differenza significativa: mentre in 1Sam 15,22 al sacrificio viene contrapposta la dottrina profetica dell’ascolto della parola di Dio, il Qohelet non lo fa, almeno non lo fa in modo esplicito. Inoltre, il Qohelet non contrappone al sacrificio degli stupidi la necessità di un comportamento etico corretto, come invece avviene in altri testi profetici spesso ricordati dai commentatori: cf. Am 5,22; Os 6,6; Mi 6,6-8; Is 1,10-13; cf. anche Sal 50,7-15, e ancora Sal 51,19; Qohelet raccomanda piuttosto una cauta e, se vogliamo, una consapevole partecipazione al culto29.
Al “sacrificio degli stupidi” il testo di Qo 4,17bc contrappone dunque l’ascoltare; un’allusione a 1Sam 15,22 resta perciò possibile, nonostante le cautele di Gordis, e nonostante il Qohelet non esprima con chiarezza che si tratta qui di ascoltare un Dio che parla o comunque di ascoltare la sua parola. Nel testo che immediatamente segue (Qo 5,1), il Qohelet pone di fronte all’invito all’ascolto l’eccessiva facilità dell’essere umano nel ‘parlare’ di fronte a Dio; all’ascolto si aggiunge così la necessità del silenzio, o quanto meno del poco parlare: “perciò siano poche le tue parole”; di nuovo al “molto parlare” è associata come già si è visto la figura dello stupido (5,2).
E’ senz’altro vero che nel libro del Qohelet Dio non prende mai la parola; eppure l’essere umano nel considerare la possibilità della preghiera deve piuttosto tacere, e posto davanti a Dio deve ‘ascoltare’, quando si trova nella sua casa: ci troviamo perciò davvero di fronte a un Dio totalmente muto?30 Se è necessario ‘ascoltare’, significa che in qualche modo qualcuno parla. ‘Ascoltare’, qui senza oggetto e coniugato come un valore assoluto, è del resto un atteggiamento tipicamente sapienziale, più volte proposto dai saggi del libro dei Proverbi, specialmente in Pr 1–9 (cf. Pr 1,8; 4.1.10; 5,7; 7,24; 8,6.32.33.34); ma dato che ci troviamo nella “casa di Dio”, ossia nel Tempio, un riferimento a Dio stesso che parla, anche in modo mediato (la sua parola) è certamente possibile. In ogni caso, va di nuovo ricordato che il Qohelet non contrappone al sacrificio degli stupidi un eventuale sacrificio dei saggi, ma un atteggiamento tipico dei saggi stessi: l’ascolto appunto; un ascolto che, in riferimento al sacrificio degli stupidi, può assumere anche la sfumatura di ‘comprendere’31, un ‘comprendere’ che a mio avviso alla luce del pensiero del Qohelet contiene l’idea della consapevolezza dei propri limiti e della dipendenza da Dio.
E’ molto difficile, data la nostra scarsa conoscenza del culto templare, comprendere se la critica al culto sacrificale sia mossa dal Qohelet in nome di una qualche preferenza per un culto che privilegiava ad esempio la lettura e l’ascolto della parola di Dio, sulla linea di quella solenne proclamazione pubblica della parola di Dio ricordata in Ne 8,1-12, un episodio che tuttavia non è collocato all’interno del Tempio. E’ vero che il Qohelet non da’ importanza all’osservanza dei precetti della Torah; e tuttavia proprio 5,3 è una ripresa quasi letterale di Dt 23,22, seppure in chiave almeno parzialmente critica32. Esiste poi come un’inclusione, anche a livello letterario, tra ‘ascoltare’ in 4,17 e “tu, temi Dio” in 5,6, dove il verbo ‘temere’ risuona per la prima volta nel libro in termini imperativi: pensare dunque a un invito all’ascolto di un Dio che parla attraverso la sua parola scritta è probabilmente il senso dell’ ‘ascolto’ inteso dal Qohelet. Non è un caso che l’epiloghista collegherà l’ ‘ascolto’ (“ascoltata ogni cosa”) proprio con il “temere Dio”, non senza un riferimento alla Legge (“temi Dio e osserva i suoi precetti”; cf. Qo 12,13-14).
Per quanto riguarda più precisamente l’obiettivo della critica del Qohelet, notiamo poi che il sintagma ntn zbḥ ricorre nella Bibbia ebraica soltanto in Es 10,25, a proposito della dichiarazione di Mosè al faraone sul fatto che egli dovrà mettere a disposizione degli Israeliti animali per il sacrificio33. La radice zbḥ indica per lo più il sacrificio cruento ed è vocabolo classico della tradizione sacerdotale; talora indica anche la festa che accompagna il sacrificio34. Difficile, nel caso delle due sole ricorrenze nel libro del Qohelet, precisarne l’accezione, se il Qohelet si riferisca cioè al sacrificio cruento, al sacrificio in genere o anche al pasto sacrificale che lo accompagnava.
Il commentario di A. Schoors passa in rassegna alcune opinioni al riguardo: per M. Jastrow, gli “stupidi” sarebbero i sacerdoti che offrono nel Tempio sacrifici di animali; contro questo tipo di sacrifici sarebbe diretta la polemica del Qohelet35; ma nulla nel libro lascia pensare a un attacco a un tale tipo di culto. N. Whybray ritiene invece che la polemica sia diretta contro coloro che pensano che i sacrifici possano cancellare i peccati36. Un altro gruppo di autori ritiene piuttosto che zbḥ si riferisca al pasto sacrificale (cf. Es 18,12; Dt 12,6-7) nel quale venivano commessi abusi37. Lohfink connette ancora gli stupidi di 4,17 con coloro che in 5,5 commettono una šggh, un “peccato di inavvertenza” in relazione ai voti38. Ma siamo in realtà nel campo delle congetture.
Basata su troppe congetture, specialmente di carattere testuale (cf. note 6, 8 e 16), appare la proposta di Pinker (“Intrusion of Ptolemaic Reality”) che interpreta 4,17 e l’intera pericope di 4,17–5,6 alla luce della situazione creatasi a Gerusalemme all’epoca tolemaica: un invito a fare attenzione a spie del governo che ascoltano quello che dici e che, guardando l’entità dei sacrifici che tu offri nel Tempio, messaggeri (mal’āk: 5,5) riportano all’ufficiale del fisco (lpny ’lhym!) la tua condizione di benestante, vessandoti poi con una pesante tassazione. Pur non accettando le ipotesi di emendazione di Pinker, il recentissimo e senz’altro monumentale commentario di S. Weeks giunge a conclusioni non troppo lontane: in 4,17 è per lui improbabile che il Qohelet si riferisca ad un atteggiamento da tenere nei confronti di Dio: “I take the point to be that it is by listening to what is going on that one will understand the pointlessness, or even danger, to join in”39.
Più interessante, in relazione al possibile sfondo storico-culturale della polemica del Qohelet, è lo studio di Armin Lange: “Im Diskussion mit dem Tempel”40. I saggi che ci hanno lasciato il libro dei Proverbi si preoccupano delle disposizioni etiche di chi offre i sacrifici (cf. in particolare Pr 15,8; 21,3.27); così fa anche Ben Sira (cf. l’intero passo di Sir 34,21–35,12); tali alternative mancano invece nel Qohelet. Lange ricorda come a questo atteggiamento dei saggi si aggiunga poi quello ancora più positivo presente nella halakah cultuale qumranica: cf. 4Q299.65, oppure 4Q421.132.6. Per quanto riguarda la preghiera, il Qohelet si ispira, secondo Lange, al già ricordato testo di Pr 15,8; la preghiera ha anche un ampio spazio in Ben Sira, come pure nei testi qumranici41. Contrariamente però a Pr 15,8, al sacrificio degli stupidi il Qohelet non contrappone la preghiera del giusto (o del saggio), che in Ben Sira, e soprattutto a Qumran ha invece una grande importanza. Per il Qohelet, la preghiera resta appena abbozzata; rimane per lui il silenzio di fronte a un Dio che è “in cielo”, mentre “tu” sei in terra (Qo 5,1)42. Dunque il Qohelet non sarebbe soltanto in polemica con il culto sacrificale, ma anche con un tipo di sapienza legata al culto e al Tempio, rappresentata dai testi sapienziali di Qumran. Nel culto, secondo la posizione del Qohelet, l’essere umano non sperimenterebbe tanto la salvezza, quanto piuttosto la sua differenza da Dio. La critica mossa dal Qohelet al sacrificio va dunque vista secondo Lange all’interno di questo più preciso contesto storico-culturale; “stupido” è in quest’ottica, per il nostro saggio, chi ritiene che il sacrificio possa in qualche modo smuovere la divinità e causare un qualche effetto positivo (cf. una idea simile, seppure in un altro contesto, in Gdt 8,16).
Per una miglior valutazione della proposta di Lange, che ci permetta di giungere a qualche conclusione, è necessario ancora affrontare brevemente l’esame della seconda ricorrenza del termine zbḥ in Qo 9,2.
La seconda ricorrenza del termine zbḥ nel libro del Qohelet si trova in Qo 9,2 (bis), un testo nel quale il riferimento a chi sacrifica e a chi non sacrifica è inserito in un contesto nel quale viene affermato che a ognuno tocca la medesima sorte, indipendentemente dal modo in cui si comporta. Purtroppo l’incipit di Qo 9,2 costituisce una ben nota crux, un problema che non possiamo qui affrontare nel dettaglio43. Seguendo il TM, si può tradurre il testo in questo modo:
tutto è uguale per tutti: c’è una sola sorte per il giusto e per il malvagio, per il buono44, per il puro e per l’impuro, per chi fa sacrifici e per chi non fa sacrifici, per il buono e per il peccatore, per chi giura e per chi teme di giurare.
Il contesto rende in ogni caso chiaro il fatto che il Qohelet non polemizza contro i sacrifici in quanto tali, così come non polemizza contro l’idea che non valga la pena di essere giusti, oppure buoni. Non sembra che neppure in questo caso si possa “arruolare” il Qohelet in un qualche gruppo di saggi che nega il valore del culto sacrificale in sé stesso. Il nostro saggio mostra qui in particolare di essere ben lontano dalle posizioni radicali degli enochici. Nella letteratura enochica il culto sacrificale non viene accettato; 1Henoch considera il culto come corrotto sin dalle origini (cf. 1Hen 89,73-74) e dunque non lo ritiene necessario45. Th. Krüger accosta in un altro contesto la posizione del Qohelet a quella dell’autore della Lettera di Aristea, un esponente del giudaismo di lingua greca non di molto posteriore al Qohelet. Nella Lettera si menzionano brevemente solo gli olocausti, ma non i pasti sacrificali (cf. Arist. 92-93), e si ricorda soprattutto il silenzio che regna sovrano nel Tempio (Arist. 95; cf. Qo 5,1-2)46. Lo stesso Krüger ha tuttavia ben dimostrato come la posizione del Qohelet nei confronti del culto non sia affatto paragonabile a quella della filosofia di epoca ellenistica (lo scetticismo in modo particolare); la polemica del Qohelet in 4,17–5,6 è inoltre interamente interna al giudaìsmo47.
Già nell’intrigante passo di Qo 7,15-18, il nostro saggio aveva relativizzato, non senza una forte ironia, il valore dell’etica, riportandola piuttosto al concetto per lui fondante del “temere Dio” (cf. 5,6)48; così fa anche in 9,2 e, nel caso del culto sacrificale, egli ne relativizza il valore, senza tuttavia volerlo escludere a priori49. Pur non negandolo apertamente, egli non lo considera indispensabile come via privilegiata del rapporto con Dio e certamente non lo incoraggia. Anche in questo caso, e contrariamente all’atteggiamento dei saggi del libro dei Proverbi, ma anche di Ben Sira (v. sopra) il Qohelet non contrappone un falso culto sacrificale a un possibile culto autentico. Offrire o non offrire sacrifici non da alcuna garanzia all’essere umano che Dio possa essergli favorevole.
Alla luce di 9,2 si comprende meglio che gli “stupidi” di 4,17 sono tali perché non si rendono conto che il loro offrire sacrifici a Dio non garantisce a chi li offre una “sorte” migliore rispetto a chi non li offre. Ecco perché il Qohelet non contrappone al sacrificio fatto dagli stupidi un qualche “sacrificio di saggi”, perché ogni forma di sacrificio è per lui relativa in sé stessa, in quanto dipendente dall’indiscutibile priorità dell’ascolto (4,17) e del temere Dio (5,6c).
La posizione del Qohelet sul culto sacrificale non è tuttavia, se considerata nel suo complesso e nel contesto del suo tempo, una posizione estremista; non più di quanto lo sia la critica profetica o salmica; certo il Qohelet non contrappone al sacrificio degli stolti “la preghiera degli uomini retti” come in Pr 15,8 o, come in Sal 51,19, il “sacrificio delle labbra”. Nel contesto della letteratura sapienziale, Qohelet non contrappone al sacrificio neppure la fedeltà alla Torah, come in Sir 35,2-5 (cf. Pr 21,3); anzi, il testo di Qo 9,2 esclude un tale atteggiamento di fedeltà alla Legge.
L’intera pericope di Qo 4,17–5,6 non lascia tuttavia pensare a un Qohelet che si oppone all’organizzazione del culto e del Tempio in quanto tale e che la contesta ad esempio alla maniera degli Enochici, sulla base di presupposti teologici (o ideologici). Il nostro saggio ritiene piuttosto che l’andare al Tempio, il sacrificio, i voti, la stessa preghiera – per non parlare dei sogni e delle visioni (cf. 5,2a.6a) – in sé e per sé non costituiscono affatto per l’essere umano una garanzia automatica di salvezza. Molto spesso, il voler presentare il Qohelet come uno scettico, come un uomo che ha di fronte a sé un Dio muto e lontano, dipende in realtà dalla sensibilità dei commentatori, come già ho ricordato. L’approccio del Qohelet sarebbe così tipico di quella prospettiva protosadducea nella quale il Qohelet secondo non pochi suoi interpreti si muoverebbe50. Dio sarebbe così oggettivamente presente, ma soggettivamente assente; sarebbe comunque una presenza debole, nella quale mancherebbe tutta la carica eversiva propria del Dio del libro di Giobbe. “Temi Dio” significherebbe poco più che “stai in guardia”, davanti a un Dio così lontano e incomprensibile, un invito a un “rassegnato rispetto” di fronte a un Dio desolatamente distante51.
Per il Qohelet lo stupido, considerato nel passo di Qo 4,17–5,6 in campo religioso, è invece quel genere di persona che si illude di ottenere con mezzi in realtà umani il favore divino e – nota con fine ironia lo stesso Qohelet – non si accorge neppure di agire male. La conclusione del Qohelet, al termine della pericope sul culto, è: “ma tu, temi Dio!” (5,6). Un “temere Dio” non tanto basato sul rispetto e sulla osservanza della Torah, che nel libro del Qohelet intesa nel suo senso normativo non ha uno spazio esplicito, quanto piuttosto sul rispetto del mistero di Dio: “Dio è in cielo e tu in terra” (5,1), un Dio di fronte al quale il silenzio è migliore di molte parole: “perciò siano poche le tue parole”. Dunque, l’errore dello stupido, in relazione al sacrificio, non sta nel fatto stesso di offrire un sacrificio, una cosa che molto probabilmente lasciava il Qohelet indifferente, ma nella pretesa di smuovere con questo atto la volontà divina. Su questo punto, in particolare, si fissa la critica del Qohelet: il culto non può essere inteso in alcun modo come un tentativo di manipolare Dio; questo è esattamente ciò che il Qohelet intende come un comportamento da stupidi52.
C’è senz’altro nel Qohelet l’esigenza di una prassi religiosa critica e consapevole, una prassi saggia appunto, non come quella di coloro che lui definisce ‘stupidi’, che tali sono anche perché nella loro pretesa di ottenere il favore divino non si rendono neppure conto di agire male. Di nuovo emerge l’importanza della connessione tra l’inizio e la fine della nostra pericope, tra l’invito all’ascolto, inteso sia come pratica sapienziale che come ascolto di Dio, dunque della sua parola, e il “temere Dio”: in entrambi i casi un invito alla consapevolezza del proprio limite umano, che va assieme al riconoscimento della propria dipendenza da Dio, presupposti imprescindibili di ogni pratica religiosa.
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[recibido: 12/02 – aceptado: 16/03/21]
1 Cf. Perdue, Wisdom and Cult.
2 Cf. Lohfink, “Warum ist der Tor unfähig”; Tita, “Ist die thematische Einheit”; Lange, “In Diskussion mit dem Tempel”; Lavoie, “Critique cultuelle”; Spangenberg, “A Century of Wrestling with Qohelet”; Hieke, “‘Wie hast Du’s mit der Religion?’”; Mazzinghi, “Ho cercato e ho esplorato”, 239-266; Pinker, “Intrusion of Ptolemaic Reality”.
3 Cf. Frankenberg – Siegfried, Die Sprüche, Prediger und Hoheslied, 49-51. Per la storia dell’esegesi di questa pericope, cf. Spangenberg, “A century of Wrestling with Qohelet”, 79-84.
4 “Daß der Abschnitt Koh 4,17–5,6 zum Grundbestand des Buches gehört, wird heute nicht mehr bestritten”: Hieke, “‘Wie hast Du’s mit der Religion?’”, 320.
5 Cf., per i dettagli, Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, 243-244; riprendo qui in gran parte la proposta di T. Hieke (cf. n. 1), cf. una struttura non dissimile in Birn-baum – Schwienhorst-Schönberger, Das Buch Kohelet, 134.
6 Sulla prima linea cf. Schoors, Ecclesiastes, 372-373, che ritiene di non doversi allontanare da questa lettura; cf. anche Gordis, Kohelet, the Man, 247, che vede nel Qohelet un atteggiamento protosadduceo. Diversamente, Schwienhorst-Schönberger, Kohelet, 312, che segue la seconda linea interpretativa; per una diversa interpretazione, cf. Pinker, “Intrusion of Ptolemaic Reality”, 2-8; Pinker offre una lettura del tutto originale (cf. oltre) interpretando la frase nel senso di “bada a chi ti segue” (“Watch your follower [ragallêkā]”), alludendo alle spie presenti nel Tempio al servizio del fisco tolemaico (cf. ib., 18-20). Ma la proposta di leggere raglêkā come ragallêkā è implausibile; ci si aspetterebbe piuttosto un participio: mrgl.
7 Per questa soluzione cf. Schoors, Ecclesiastes, 374-375.
8 Cf. Krüger, Qohelet, 106; Schwienhorst – Schönberger, Kohelet, 310. Cf. anche la BHQ (Goldman, Qohelet, 82*); sulla base anche della traduzione di Simmaco: éggize. Più difficile da dimostrare sembra la lettura di Pinker (cf. n. 6; v. anche oltre) che traduce, prendendo qarôb come un aggettivo, con: “Watch your follower when you go to the House of God or if near to listen”; Pinker pensa ancora alle spie dell’amministrazione tolemaica che nel Tempio ascoltano le preghiere e i discorsi di devoti poco cauti.
9 Cf. Schoors, Ecclesiastes, 374, per quanto riguarda l’esclusione della aggiunta di tôb davanti a mtt e per altri riferimenti bibliografici.
10 Cf. Backhaus, “Ecclesiastes”, 2014.
11 Krüger, Qohelet, 310. Cf. anche la traduzione proposta da Schwienhorst-Schönberger, Kohelet, 309: “Eine Gabe von Toren ist ein Schlachtopfer”; una traduzione analoga era già stata proposta da Allgeier: “Die Gabe der Toren ist Opfer” (Das Buch der Predigers, sub loco).
12 Cf. adesso anche Weeks, Ecclesiastes 1-5, 634-635. Il sacrificio è “a sort of tax of idiocy” (628).
13 Cf. Goldman, Qohelet, 82*.
14 Cf. Schoors, Ecclesiastes, 377-379 (“they are ignorant in/when doing wrong”), con ampia sintesi di diverse opinioni.
15 Cf. Fox, A Time to Tear Down, 230-231.
16 Come ad esempio la duplice emendazione proposta da Pinker: ki-’ynm ywd‘ym [mh]l‘śwt [d]‘: “perché essi non sanno che cosa fare” (“Intrusion of Ptolemaic Reality”, 20-21).
17 Qo 2,14.15.16 (2x); 4,5.13.17; 5,2.3; 6,8; 7,4.5.6.9; 9,17; 10,2.12.15. Per un’analisi lessicale dei termini cf. Schoors, The Preacher Sought, II, 167-171 (cf. anche n. 18); v. anche Dias Da Silva, “A funçâo didática do tonto” per una presentazione generale della figura dello stupido / stolto nel Qohelet.
18 Cf. ksl in 2,19; 7,17; 10,3 (bis).14 e sklwt in 2,3.12.13; 7,25; 10,1.13; cf. anche hllwt: 1,17; 2,3.12-13; 7,25, 10.1.13; Cf. Schoors, The Preacher Sought, II, 193-197.
19 Cf. al riguardo “Words for Folly”: Fox, Proverbs 1-9, 38-44.
20 Cf. per questa interpretazione già Plumptre, Ecclesiastes, or the Preacher, 147; cf. Schoors, The Preacher Sought, II, 104-105; Weeks (Ecclesiastes 1-5, 644) pensa piuttosto a un’espressione idiomatica che indica generico disprezzo, senza un particolare riferimento a Dio.
21 Cf. Mazzinghi, “Qohelet tra giudaismo ed ellenismo”.
22 Cf. Gordis, Kohelet, 238: “who do not know how to do evil”. Così anche Fox, A Time to Tear Down, 229; egli riconosce tuttavia che tale traduzione non offre un senso compiuto, ma ritiene che il TM richieda proprio questa traduzione: “I translate the sentence literally without understanding the point” (231). A meno di non voler pensare a una voluta ambiguità da parte del Qohelet: cf. Ingram, Ambiguity in Ecclesiastes, 209-211.
23 Cf. Lambert, Babylonian Wisdom Literature, 116, ll.10-13; cf. Seow, Ecclesiastes, 195.198.
24 Ma si veda una diversa lettura di Qo 5,5 difesa da A. Rofé, sulla base di un’interessante congettura (“non dire: ‘davanti a te c’è un angelo’, perché questa è una sciocchezza”): cf. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, 259-260.
25 Questa è l’interpretazione difesa da Lohfink (“Warum ist der Tor”, 119-120): egli preferisce pensare agli stupidi come a coloro che non si rendono conto di compiere il male.
26 Cf. Schwienhorst – Schönberger, Kohelet, 313, che pensa a un duplice senso di questa espressione: “denn sie wissen nicht, dass sie Böses zu tun” / “denn sie verstehen nicht einmal, Böses zu tun”. Cf. anche Weeks, Ecclesiastes 1-5, 636: “the point is either that they have no understanding of the concept or practice of doing wrong, or that they do not understand their own wrongdoing (which may be one of the things that marks them as fools)”; egli traduce “they have no idea when they’ll do what is wrong” (cf. la discussione alle pp. 634-637).
27 Cf. ad esempio Schwienhorst-Schönberger, Kohelet, 136; per quanto riguarda Girolamo, cf. Comm. in Eccl., PL 23, 1105A.
28 Cf. Gutridge, “The Sacrifice of Fools”.
29 Cf. Gordis, Kohelet, 45; cf. anche Schoors, Ecclesiastes, 376. Osserviamo che molti giudizi dipendono in realtà dalla sensibilità propria di ogni commentatore: cf. ad esempio Perdue: “To Kohelet, fear, extreme caution, a lack of religious passion, and a cool disdain for the frenetic fanatic remains the proper virtues of the wise culties”; Wisdom and Cult, 182; al contrario, Gutridge parla di “a high level of faith” (“The Sacrifice of Fools”, 88).
30 Su questa linea insistono alcuni commentatori come ad esempio A. Lauha, per il quale il Qohelet inviterebbe qui a una partecipazione solo passiva al culto: “Empfehlung einer nur passiven Teilnahme am Kult”: Kohelet, 98. Ma che cosa significa un “ascolto” solo passivo? Forse l’interpretazione del vescovo finlandese Lauha rivela l’atteggiamento mentale del commentatore che inconsapevolmente fa del Qohelet un predecessore biblico del culto luterano.
31 “More probably it has the meaning here to ‘understand’. Kohelet it is not interested in preaching religious obedience, but in contrasting the need to understanding with the conforming, empty piety of those he regards as fools”; Gordis, Kohelet, 237.
32 Cf. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, 254-256; Schoors, “(Mis)use of intertextuality”.
33 Cf. Krüger, Qohelet, 106, che osserva come alla luce di quest’unica ricorrenza l’accento in Qo 4,17 potrebbe cadere più sull’offerta del sacrificio che sulla sua presentazione.
34 Cf. Bergman – Rinngren – Lang, “zabaḥ, zebaḥ”, GLAT II, 568-578.
35 Jastrow, A Gentle Cynic, 216.
36 Whybray, Ecclesiastes, 93.
37 Eaton, Ecclesiastes, 98; ma l’idea era già stata avanzata nel commentario ottocentesco di F. Hitzig, Der Prediger Salomo’s, 158; viene ripresa poi brevemente da Lohfink, Qohelet, 76; cf. anche Krüger, Qohelet, 107.
38 Cf. Lohfink, “Warum ist der Tor”, 119 n. 2 (cf. nota 20, per una diversa lettura di Qo 5,5).
39 Weeks, Ecclesiastes 1-5, 628.
40 Lange, “Im Diskussion mit dem Tempel”, in Schoors, Qohelet in the Context of Wisdom, 114-159.
41 Cf. i testi citati alle pp. 152-154, specialmente i testi sapienziali di 4Q 415-417.
42 “Steht das Gebet für Koh unter dem Schatten des fernen Gottes”; cf. Lange, “Im Diskussion mit dem Tempel”, 154.
43 Cf. Schoors, Ecclesiastes, 656-657, con la proposta di diverse scelte testuali.
44 Probabilmente una glossa.
45 Cf. Nickelsburg, 1Henoch 1, 54-55.
46 Cf. Krüger, Qohelet, 108.
47 Ib., 111-112.
48 Cf. Mazzinghi, “Qohelet tra giudaismo ed ellenismo”.
49 “Kohelet geht es nicht um eine allgemeine Abschaffung, vielmehr fordert der einzelnen zum Verzicht darauf in seiner privaten Frömmigkeit auf”: Hieke, “‘Wie hast Du’s mit der Religion?’”, 333 n. 60.
50 Un’idea già presente nel commentario di L. Levy, Das Buch Kohelet (1921); Levy, rabbino a Brno, morì in Francia nel 1946.
51 Cf. Gorssen, “La cohèrence de la conception de Dieu”; Michel, Untersuchungen zur Eigenart des Buches Qohelet, 255; Ravasi, Qohelet, 193-194.198; Schoors, “(Mis)use of intertextuality”, 55.
52 Su questa linea cf. anche Lux, “‘Denn es ist kein Mensch so gerecht auf Erden’”, 281; Zimmer, Zwischen Tod und Lebensglück, 187-190: “Durch keine Art religiöse Vollzüge kann der Mensch sein Leben sichern oder Gott in seinem Sinne beeinflussen” (188).